Profili di diritto processuale alla luce della Riforma Cartabia nel contesto della c.d. “violenza assistita”

Profili di diritto processuale alla luce della Riforma Cartabia nel contesto della c.d. “violenza assistita”

Un’acuita attenzione alla persona del minore vittima di maltrattamenti intrafamiliari si evince dalle recenti disposizioni di riforma ai codici di rito, introdotte con la L. 27 settembre 2021, n. 134 (Riforma Cartabia).

Soffermando più specificamente lo sguardo sul fenomeno della c.d. “violenza assistita”, ovverosia sulle ipotesi di maltrattamento “indiretto” del minore d’età (ex art. 572, comma 2, c.p.), nel presente contributo vengono approfondite alcune tematiche di cruciale rilievo rispetto alle previsioni normative cardine della Riforma.

Procedural law profiles in the light of the Cartabia Reform in the context of the so-called “witnessing domestic violence”

 A heightened focus on the protection of minors who are victims of intrafamilial abuse emerges from the recent procedural code reforms introduced by Law No. 134/2021 (Cartabia Reform).

More specifically, attention is directed towards the phenomenon of so-called “witnessing domestic violence”, that is cases of “indirect” maltreatment of minors (Article 572, paragraph 2, of the Italian Penal Code). This contribution delves into several crucial issues concerning the key legislative provisions established by the Reform.

Sommario: 1. La delicata questione dell’ascolto del minore – 2. Il minore vittima di “violenza assistita” quale persona offesa del reato – 3. Assunzione della testimonianza di minorenni nel più ampio quadro della consulenza psico-forense – 4. Utilizzazione degli elementi di prova raccolti in ambito civile: la circolarità informativa – 5. Il diritto di scelta del minore e considerazioni in materia di affido

1. La delicata questione dell’ascolto del minore

Attingendo al sapere filosofico, ci sembra utile avviare la trattazione a partire dell’idea della “logica simbolica dell’ascolto” quale fondamento teorico dell’attività stessa di giudizio[1].

Già Eschilo coglieva nell’atteggiamento dell’ascolto la prima tra le virtù richieste a un giudice, utile, parafrasando il pensiero arendtiano, a fare esperienza del mondo, dunque, a percepirlo da altri angoli prospettici[2]: in questo si riconosce la capacità di giudizio, ovvero il “talento”[3] di leggere la realtà assumendo anche il punto di vista altrui attraverso il pensiero rappresentativo[4]. E quest’ultimo è intrinsecamente legato all’ascolto se si amplia la visuale fino a ricomprendervi la capacità di udire, intendere e comprendere non la parola, ma il silenzio di coloro che giacciono in una posizione di vulnerabilità[5].

Ed è appena il caso di osservare, ai fini della nostra trattazione, che soggetti vulnerabili meritevoli di particolare protezione sono riconosciuti, ai sensi delle fonti internazionali ed europee, i minori d’età[6].

Sul piano segnatamente giuridico, è andato erodendosi l’atavico dogma dell’incapacità del minore grazie alla spinta di quelle istanze assiologiche della Corte di Strasburgo che hanno evidenziato la necessità di concepire in termini di “soggetto titolare di diritti” – e non più solo di mero oggetto di tutela – la figura del fanciullo, la cui opinione va tenuta in debito conto in considerazione dell’età e del grado di maturità.

S’è finora disquisito in senso a-tecnico dell’ascolto del minore quale momento prodromico al giudizio nei processi che lo riguardano: invero, è il caso di discernere puntualmente tra il concetto di “audizione del minore”, utilizzato per descrivere l’operazione di raccoglimento di informazioni e dichiarazioni su fatti rilevanti ai fini della decisione, e quello di “ascolto valutativo”, mediato da un consulente e deputato all’individuazione dell’“interesse superiore” del minore[7]; a rigore, si distingua infine l’“ascolto informativo”, volto a rendere edotto il minore delle prospettive che si vanno maturando in un contesto giudiziario per decisioni che lo riguardano, dall’“ascolto dell’opinione del minore”, finalizzato a consentirgli di esprimere i suoi orientamenti nel processo.

Si comprende, quindi, come l’audizione del minore si ponga quale atto processuale che rappresenta, per questi, l’occasione per l’esercizio del diritto, riconosciuto, come anzidetto, dalla Convenzione di Strasburgo, di esprimere la propria soggettività.

Non duole rammentare che, dal punto di vista della sua configurazione giuridica, è da ritenersi estraneo sia al catalogo dei mezzi istruttori, giacché non deputato alla verifica di un fatto posto a partire dalle domande di una parte, sia all’istituto della testimonianza, essendo espressamente richiesto al minore, in sede di audizione, di manifestare la propria opinione, sia, infine, allo strumento dell’interrogatorio formale, non mostrandosi funzionale all’acquisizione di una confessione del dichiarante su circostanze a sé sfavorevoli.

La disamina ha ragione di essere condotta sul solco delle più recenti disposizioni introdotte con la L. n. 134/2021 e, segnatamente, di quelle contenute nel nuovo Titolo IV-bis del Libro II del Codice di procedura civile, rubricato “Norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie”: a testimonianza di un’acuita sensibilità rispetto al passato, ora, minuziosamente tipizzati sono i casi di esclusione motivata dell’audizione di cui al nuovo art. 473-bis.4 c.p.c.[8], nonché accuratamente specificate le modalità di ascolto, nella norma immediatamente successiva[9]. Meritevole di un più analitico approfondimento è invece la disposizione che regola il caso di “rifiuto del minore a incontrare il genitore”, ex art. 473-bis.6 c.p.c., delineandosi, strutturalmente, in maniera poco uniforme: tale rilievo può comprendersi se si legge la norma con la consapevolezza che essa sia il frutto di una conciliazione operata tra due opposti orientamenti scontratisi in sede di progettazione della Riforma. Da notarsi, infatti, il sapore penalistico che si evince dalla lettera del primo comma quando, in caso di rifiuto del minore a incontrare uno o entrambi i genitori, si richiede al giudice di procedere all’ascolto «senza ritardo», assumendo «sommarie informazioni» sulle cause del rifiuto, evidentemente echeggiando l’istituto delle sommarie informazioni testimoniali ex art. 351 c.p.p.; se tale primo orientamento è andato maturando sul presupposto del rifiuto quale conseguenza di condotte pregiudizievoli poste in essere dal genitore oggetto del rifiuto stesso, la posizione antitetica, invece, è quella assunta da coloro che rinvengono tra le cause del rifiuto anche quelle azioni «tali da ostacolare il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo tra il minore e l’altro genitore o la conservazione di rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale», così come descritte dal secondo comma.

Appare chiaro, quindi, che un marcato aspetto di criticità si può cogliere attraverso l’analisi testuale dell’art. 473-bis.6 c.p.c., contemplando lo stesso la compresenza di attività riconducibili a due ambiti fra loro divergenti, ovvero quella di raccolta di informazioni testimoniali (di cui al primo comma) e quella di acquisizione dell’opinione del minore.

Si noti, peraltro, che se in ambito penale l’ascolto presuppone la verifica della sussistenza dell’idoneità a rendere testimonianza, ex art. 196 c.p.p., sul piano del processo civile a essere valutata è la capacità di discernimento: quest’ultima fa ingresso nei testi delle Convenzioni internazionali e per la prima volta nel nostro ordinamento solo negli anni Ottanta con l’approvazione della Legge sull’adozione (L. n. 184/1983), pur tuttavia rimanendo scevra di sufficienti approfondimenti.

Sovviene però sin da subito precisare che da tenere debitamente distinti sono i contesti giuridico e psicologico in termini definitori della capacità di discernimento: se all’interno del primo, infatti, essa è da intendersi come la capacità di comprendere quello che risulta più utile per se stessi e di compiere decisioni autonome (si parla, a riguardo, di “capacità di discernimento generica”), nel secondo essa va ad assumere un valore maggiormente legato alla sfera dell’evoluzione psicologica, più che al concetto di maturità, risolvendosi quindi nella capacità di riconoscere i propri bisogni ed elaborare strategie per soddisfarli, svincolate dall’influenza o dal condizionamento dell’altrui volontà (è questa, invece, la “capacità di discernimento specifica”).

Inevitabilmente, dunque, ascolto e capacità di discernimento si muovono lungo la medesima direttrice nella misura in cui al fanciullo viene conferito un potere decisionale congruo col suo grado di maturità: e se al giudice compete l’espletamento del primo, è invece al consulente tecnico d’ufficio a spettare la valutazione in concreto della capacità di discernere, tenendo conto degli inevitabili condizionamenti esterni, quali le pressioni e le minacce implicite, i conflitti di lealtà[10] e le identificazioni “adesive”[11], cui si aggiunge la contestuale necessità di evitare che il minore finisca per trovarsi oppresso dal peso delle scelte compiute per compiacere l’uno o l’altro genitore, emulandone i giudizi e le condotte (si parla, a riguardo, della c.d. “adultizzazione”).

Sicché, dinnanzi alle esigenze, da un lato, valutative della capacità di discernimento e, dall’altro, conciliative dei diversi diritti in capo ai minori, si richiede al giudice un’operazione di ponderato bilanciamento: viene, qui, in luce l’art. 13 della Convenzione europea per l’esercizio dei diritti dei minori, che si propone di incoraggiare rimedi come la «mediazione e altri metodi di soluzione dei conflitti» proprio per scongiurare procedure che coinvolgano un fanciullo all’interno di un meccanismo giudiziario.

Può trarsi una prima conclusione: ovvero della crucialità di un’attività di ascolto del minore a opera del consulente esperto che sia quanto più possibile preservata, anzitutto sul piano processuale, da elementi di contaminazione suscettibili di minarne l’utilizzabilità, nonché, sul piano della tutela del minore stesso, da fattori che potrebbero suggestionare il suo vissuto, instaurando in lui percezioni distorte.

Evidente è che la chiave di volta non possa che essere rappresentata da un fedele atteggiamento di conoscenza e di devota adesione ai paradigmi scientifici e all’obiettività del metodo: il riferimento è, di nuovo, all’esigenza di una coordinazione dialettica, di un dialogo integrato, fra diritto e scienze sociali.

L’importanza di valorizzare un simile dialogo si constata, a livello empirico, nella circostanza per cui, ad esempio, il rifiuto opposto dal minore alla frequentazione di uno o entrambi i genitori rappresenti un’eventualità infrequente, pur nei casi di accertati maltrattamenti in famiglia, configurandosi al più come “fenomeno giuridico” che s’innesca come conseguenza delle strategie difensive assunte dagli avvocati – sovente non provvisti di adeguata formazione nelle discipline sociali – dalle quali il minore risulta inevitabilmente pregiudicato.

Tali riflessioni muovono dalla premessa in base alla quale l’esperienza vissuta dal minore, in ordine a un maltrattamento, è da considerarsi personale e non necessariamente fonte dell’ingenerarsi di un trauma, sicché spesso il fatto di violenza risulta diversamente percepito rispetto a come viene accertato nel procedimento: e il compito del consulente tecnico consiste, precipuamente, nella ricezione del vissuto del minore, non già dell’accertamento del fatto de quo.

Tuttavia, riteniamo tali considerazioni non scevre da aspetti di criticità: inevitabile, infatti, risulta chiedersi se non dovrebbe sussistere in capo all’adulto (genitore maltrattato) una responsabilità, di natura quantomeno morale, nell’indirizzamento del minore allo sviluppo della consapevolezza dei comportamenti (del genitore maltrattante) cui ha assistito da qualificare come inequivocabilmente nocivi, pur se in via indiretta. E volendo trovare una conferma della rilevanza dello scopo educativo e di indirizzo del minore ci si potrebbe anche solo ancorare alle evidenze che emergono dalla letteratura scientifica in tema di trasmissione intergenerazionale della violenza: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la “violenza assistita” rappresenterebbe, infatti, un fattore di rischio associato a una più elevata probabilità per i soggetti di sesso maschile di agire, in futuro, maltrattamenti e per quelli di sesso femminile di esporsi alla vittimizzazione.

Si diceva, poc’anzi, del rilievo che, in ambito processuale, assume l’ascolto del minore, sia in qualità di testimone sia nelle vesti di persona offesa in sede penale, nonché in tutti i casi in cui debbano essere adottati provvedimenti che lo riguardino in sede civile: sul tema, anticipiamo acquistare particolare rilevanza quel processo di circolarità informativa di cui si dirà nel paragrafo sub 4.

Per quanto interessa in questa sede, nell’ambito dei maltrattamenti contro familiari o conviventi s’è preso atto della riconosciuta qualifica di persona offesa in capo al minore che assista al fatto di cui all’art. 572 c.p., a seguito degli interventi di riforma operati dal Codice Rosso: l’importanza della sua audizione, tuttavia, rischia di essere intaccata dall’eventualità, peraltro non occasionale, di un diniego, da parte del Tribunale, dell’ammissione della prova, premendo l’esigenza sia di scongiurare fenomeni di vittimizzazione secondaria sia di garantire l’affidabilità dei contenuti della dichiarazione.

Ne consegue che, ai fini dell’accertamento del fatto, di peculiare rilievo risulta il ricorso all’istituto dell’incidente probatorio, quale momento ultimo dichiarativo, stante il limite della riedizione dibattimentale della testimonianza avente a oggetto i medesimi fatti, ai sensi dell’art. 190-bis, c. 1-bis c.p.p.: si rammenti, infatti, che ex art. 392 c. 1-bis, «nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 572 c.p.  (…), il pubblico ministero, anche su richiesta della persona offesa, o la persona sottoposta alle indagini possono chiedere che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minorenne (…) anche al di fuori delle ipotesi previste dal comma 1». Attività da espletarsi sempre contemperando le esigenze di accertamento con quelle di tutela della personalità del minore, nel rispetto delle previsioni costituzionali[12] e internazionali[13].

A completamento dell’analisi di natura processualistica circa l’ascolto del minore resta da accennare alla questione concernente la riorganizzazione della struttura dell’organo giudicante e delle competenze dei magistrati deputati alla trattazione delle cause minorili, a seguito degli interventi operati dalla Riforma Cartabia.

A far data formalmente dal 31 dicembre 2024 (a oggi, con posticipazione all’ottobre 2025), l’attuale Tribunale per i minorenni sarà relegato a mera sezione distrettuale, cedendo il posto al nuovo Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie: sezione distrettuale alla cui competenza, anzitutto, vengono assegnate materie relative alle adozioni, ai procedimenti penali, alla protezione internazionale e alla cittadinanza, così come il riesame dei provvedimenti a contenuto decisorio emessi dalle sezioni circondariali, ora deputate a deliberare in materia di persone, minori e famiglia.

Appare, quindi, evidente che le competenze proprie del Tribunale per i minorenni siano destinate a disperdersi nelle sezioni circondariali operanti in composizione monocratica.

Il punctum dolens è ormai pressoché svelato: il momento di confronto in sede decisoria garantito dalla collegialità nonché l’apporto multidisciplinare della componente onoraria non trovano più spazio nell’attuale corpus legislativo in ossequio al principio della ragionevole durata del processo, quale obiettivo cardine della Riforma.

A rigore, il prezioso contributo interprofessionale dei magistrati onorari continuerà a essere garantito, pur se la sua portata sarà notevolmente ridimensionata: relegati all’Ufficio del processo, ai giudici onorari sarà consentito di espletare «funzioni di conciliazione, di informazione sulla mediazione familiare, di ausilio  all’ascolto  del minore e di sostegno ai minorenni e alle parti»[14], mentre espunta dal catalogo delle loro competenze è la facoltà di procedere all’ascolto del minore[15], ora rimasta in capo all’unico – e solo – giudice togato[16].

La giustificazione addotta al suddetto disposto normativo si coglie nella previsione di un’alta specializzazione dei magistrati, assicurata da una specifica formazione: un’aspettativa della quale, indubbiamente, si auspica un concreto realizzarsi in quella che sarà l’imminente realtà giuridica delle sezioni circondariali, ma che pare in discrasia con la constatata carenza di organico in rapporto all’attuale carico di lavoro effettivo.

Consequenziale, dunque, è un verosimile allontanamento dal prefigurato obiettivo della Riforma di una celere definizione dei procedimenti: in chiave prognostica non pare difficile ipotizzare che, attesa l’insussistente pianificazione di un aumento della componente giuridica specializzata chiamata a giudicare, gli accertamenti istruttori andranno riducendosi a scapito della correttezza e della giustizia della decisione.

La devoluzione di compiti intrinsecamente connotati da una matrice umanistica, che tenderà a sfociare in una decisione solipsistica del magistrato togato, quasi sembra rievocare quel mito del giudice solitario e onnisciente scaturito dalla sfiducia legislativa verso le scienze umane, in spregio dell’asserita tendenza del nostro ordinamento giuridico alla valorizzazione del principio della specializzazione, quale espressione di professionalità e competenza.

Ma volendo soffermarsi anche solo sugli effetti, prima che sulle cause, di una simile scelta normativa, non sorprende che il modo in cui avrà a esplicarsi il ruolo del giudice dinnanzi al soggetto minore sia l’interrogativo che più agita la comunità giuridica: da domandarsi non è solo se il linguaggio della legge arretrerà adeguatamente a beneficio di un “linguaggio empatico”, ma, soprattutto, se capacità del giudice sarà quella di cogliere i reali bisogni e intenzioni del minore alla luce del “non verbale” e del racconto emozionale, ove non solo narrativo, di valutare la sussistenza di possibili componenti di suggestione più o meno manifeste e del modo in cui hanno motivo di essere apprezzate in considerazione del quadro di riferimento complessivo[17].

Quella che si è dimostrata, nell’esperienza pratica, una risorsa d’estrema utilità, ovverosia la partecipazione della componente onoraria alla fase decisoria e la facoltà di delega alla stessa dell’ascolto del minore, specialmente se in tenera età o portatore di un vissuto traumatico, è stata vanificata in nome del principio di celerità del processo che rischia, peraltro, di rappresentare un miraggio se non addirittura causa di pregiudizio di valori di rango superiore[18].

In attesa di vagliare i primi riscontri pratici della nuova normativa, quello cui si auspica è la manifestazione di un atteggiamento di apertura a un ripensamento delle disposizioni processuali in ordine alle controversie familiari e minorili.

2. Il minore vittima di “violenza assistita” quale persona offesa del reato

Nel presente paragrafo intendiamo far luce sulla linea di demarcazione che separa la figura del minore in quanto “testimone” da quella del minore quale “persona offesa”. In altri termini, si vuole qui soffermare l’attenzione sul quinto e ultimo comma dell’art. 572 c.p. là dove, a seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 69/209, qualifica, concisamente, il minore che abbia assistito ai maltrattamenti di cui al medesimo articolo come “persona offesa del reato”.

La nozione criminologica di “vittima”, così come elaborata a livello comunitario[19], non ricalca appieno il perimetro delle corrispondenti figure processualistiche di “persona offesa” e di “danneggiato”, né il legislatore interno si è mai mostrato intento a un suo trapianto nel codice di rito: se ne ravvisano, al più, tracce disseminate in loci sparsi della trama codicistica[20], ancorché con accezione atecnica per alludere alla persona offesa dal reato. È da ravvisarsi, comunque, un tentativo di allentare le strette maglie del testo normativo per lasciar penetrare quella vis expansiva di sapore sovranazionale del concetto di “vittima”: lo si scorge, in particolare, nella dilatazione della nozione di “persona offesa”, proprio nell’ambito dei maltrattamenti ex art. 572 c.p., sino a incorporare le vittime indirette considerate meritevoli di una tutela rafforzata. Non è difficile intuire che il recepimento, spesso caotico ed estemporaneo, degli input extranazionali si presti a una proliferazione di peculiari figure di persone offese vulnerabili, tanto all’interno del diritto penale sostanziale[21] quanto sul versante processuale[22]: il riferimento alla fattispecie della “violenza assistita” ne costituisce emblematica rappresentazione.

Il graduale recepimento, dunque, del concetto criminologico di “vittima” del reato all’interno delle legislazioni penali ha gettato le premesse per la prospettazione di una tutela più ampia, a superamento dei limiti del sistema nazionale di protezione della persona offesa[23].

Ma nel codice di rito non è data traccia di una definizione di “persona offesa dal reato”, i cui lineamenti sono scolpiti da norme di natura e sostanziale e processuale: «i diritti e le facoltà ad essa riconosciuti ne individuano il ruolo nel procedimento penale»[24] e sono delineati attraverso specifiche attribuzioni di volta in volta indicate dalla legge.

Così il minore, persona offesa dal reato ex art. 572 c.p., interviene nel processo[25] con facoltà di esercizio delle prerogative enucleate all’art. 90 c.p.p. così come riformato dalla L. 27 settembre 2021, n. 134: in sintesi, rinviando alla norma menzionata per l’enucleazione dettagliata dei diritti riconosciuti alla persona offesa, si voglia qui rammentare, anzitutto, che già con delibera del 9 maggio 2018 del Consiglio Superiore della Magistratura, nell’adozione della “Risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica”, si è rimarcato che «il magistrato requirente e quello giudicante debbono presentare un’attenzione prioritaria al rischio che le violenze subite dalla vittima si ripetano nel tempo e/o degenerino»; il che ha imposto la necessità di una modifica di alcune disposizioni del codice di procedura penale «allo scopo di garantire la priorità alla trattazione delle indagini» e «l’immediata instaurazione del procedimento penale per pervenire alla rapida adozione dei provvedimenti eventualmente necessari a protezione della vittima»[26]. La medesima ratio è sottesa alla previsione secondo cui la notitia criminis acquisita dalla polizia giudiziaria debba essere riferita «“immediatamente” al pubblico ministero, anche in forma orale», alla quale «deve seguire “senza ritardo” quella scritta»[27]. È appena il caso di ricordare, poi, che al minore-persona offesa è riconosciuto il diritto di presentare memorie, in ogni stato e grado del procedimento, e, a esclusione del giudizio di Cassazione, di indicare elementi di prova affinché il pubblico ministero possa meglio essere orientato nelle indagini; in quanto vittima diretta di “violenza assistita” è, inoltre, legittimato a costituirsi parte civile nel processo penale ai fini del risarcimento del danno, potendo peraltro valersi della richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, anche in deroga ai limiti di reddito previsti ex lege[28]. In anticipazione del contenuto del paragrafo infra 3. e ricordando quanto già approfondito nel paragrafo supra 1., si rammenti, poi, che in tema di prova testimoniale la tempestività nell’assunzione delle dichiarazioni del minore è cruciale per prevenire il rischio di definitiva compromissione dell’attendibilità del suo contributo a causa dei processi di suggestione o eteroinduzione, anche involontaria, che potrebbero intervenire, pur ricordando che la valutazione della prova si circoscrive al solo accertamento della responsabilità dell’imputato: qualora sia considerata attendibile, alla testimonianza viene riconosciuta la natura di fonte di prova, «ammettendo che sulla stessa, anche esclusivamente, possa essere fondata l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, purché la relativa valutazione sia adeguatamente motivata»[29]; «né rileva, ai fini della valenza probatoria delle dichiarazioni rese, la circostanza che la persona offesa sia costituita parte civile, richiedendosi, in tal caso, esclusivamente un maggior rigore nella valutazione di attendibilità»[30]. A precisazione di quanto appena affermato, di non trascurabile rilevanza è, inoltre, il riconoscimento da parte delle Sezioni Unite dell’inapplicabilità della previsione di cui al comma 3 dell’art. 192 c.p.p. alle dichiarazioni della persona offesa dal reato, «che possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, sottoponendo a preventiva e motivata verifica la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità intrinseca del narrato, che deve tuttavia effettuarsi in modo più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, aggiungendo che, in caso di costituzione di parte civile della persona offesa, può essere opportuno procedere anche al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi»[31]: in altri termini, non si rende necessario che i singoli episodi riferiti dal teste siano assistiti, ciascuno, da riscontri esterni, previa indispensabile verifica, corredata da idonea motivazione, della sua credibilità.

3. Assunzione della testimonianza di minorenni nel più ampio quadro della consulenza psico-forense

«Una domanda raramente è soltanto una domanda»[32]. Sul terreno della comunicazione interpersonale s’innestano tanto il contenuto esplicito quanto il “non detto” lasciato intendere sulla base delle reciproche aspettative, sicché risulta agevole comprendere l’inevitabilità dell’influenza che viene a esercitarsi sull’altro. Di una tale influenza può scorgersi la portata se si volge lo sguardo a quegli studi empirici[33] che attestano il generalizzato virare del comportamento umano verso un atteggiamento confermativo[34] dei presupposti della domanda[35], pur falsi, rispetto, piuttosto, a un impulso correttivo del vizio del quesito stesso: «la causa di questo atteggiamento risiede, sia nella forza logico-linguistica del presupposto, che nelle regole sociali e pragmatiche di disponibilità e cooperazione»[36] che stimolerebbero l’interpellato a replicare alla domanda e non già a contraddire la veridicità del suo presupposto. A fortiori, questo meccanismo si nota quando a essere poste sono domande suggestive: domande che «affermano più di quanto non chiedano» e che «inducono l’interrogato a rispondere in modo da confermare i presupposti della domanda»[37]. «Talvolta si crede di cercare verifiche ed invece si producono conferme. Ciò non avviene sempre, ma è il pericolo che incombe»[38]. Il ricorrere del “meccanismo sociale della conformità” si è notato, parimenti, in contesti di reiterazione delle medesime domande[39]: a essere stata osservata fu la tendenza dei soggetti sottoposti a quesiti ripetuti a ricordare più agevolmente la risposta precedentemente fornita, pur se errata, anziché rammentare l’evento originario cui si riferiva la domanda. Il fenomeno della compiacenza rappresenta, dunque, una sorta di “collaborazione estrema” che, in ogni caso, conduce a un’alterazione del resoconto testimoniale. È da ritenersi, ormai, un dato fattuale la circostanza in base alla quale «l’informazione contenuta in domande suggestive riguardanti un dato evento, finisce per incorporarsi nella memoria del teste e… contribuirà ad accrescere o diminuire l’accuratezza della successiva deposizione»[40]: e tale evidenza manifesta la sua più tangibile forza espressiva in relazione alla testimonianza dei minori. Cospicua è la mole di esperimenti condotti in guisa da indagare la componente di suggestionabilità nei soggetti minori[41]: il portato di un accertamento in senso positivo della loro indole suggestionabile, in prima istanza per fisiologiche ragioni di età, è, inevitabilmente, l’inattendibilità della loro testimonianza. Una problematica di non indifferente complessità per la criminologia, la psicologia giuridica e la psichiatria forense.

L’interferenza tra l’appena descritta tipologia di domande e la capacità di esporre gli accadimenti vissuti, ergo, è andata via via integrando una questione suscettibile di smuovere la coscienza della comunità scientifica: si osservi che, secondo l’odierna formulazione dell’art. 6 della Carta di Noto, così come riformato nel luglio del 2002, all’esperto è prescritto il dovere, nella comunicazione col minore, di «evitare domande e comportamenti che possano compromettere la spontaneità, la sincerità e la genuinità delle risposte, senza impegnare il minore in responsabilità per ogni eventuale sviluppo procedimentale».

Volendo, invece, dirigere lo sguardo all’ordinamento italiano, il divieto di domande suggestive trova la propria collocazione all’interno del disposto di cui all’art. 499, comma 2, c.p.p., la cui formulazione, tuttavia, nella sua eccessiva genericità, non rende particolarmente agevole il controllo della sua osservanza.

Ma non creda, il lettore, che la suggestione del minore provenga solo, eventualmente, dai quesiti posti dall’esperto deputato a condurre il colloquio, giacché ha motivo di scaturire, altresì, dalle domande formulate, pur senza intenzionalità, dai genitori stessi. E in considerazione del fatto che serba, almeno fino all’età prescolare, una marcata tendenza ad assecondare l’adulto[42], soprattutto se connotato di autorità nei suoi riguardi, è inevitabile che il bambino confermi l’informazione, pur non veritiera, suggerita, temendo di essere valutato negativamente e di deludere le aspettative. Informazione idonea, a tutti gli effetti, a interferire col suo ricordo, già peraltro passibile di essere alterato da innumerevoli altri fattori sia in senso ablativo (in termini di rimozione di fatti accaduti) sia in senso distorsivo (attraverso la creazione, anche dettagliata, di ricordi basati su avvenimenti mai verificatisi).

4. Utilizzazione degli elementi di prova raccolti in ambito civile: la circolarità informativa

Con la predisposizione del d.d.l. n. 2530/2022, attualmente ancora in corso di esame in commissione, è stato prefigurato un rafforzamento dell’impianto delle misure per la repressione della violenza di genere, segnatamente con attenzione «ai casi in cui tale fenomeno si manifesta in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza, in considerazione della particolare vulnerabilità delle vittime, nonché degli specifici rischi di reiterazione e multilesività»[43].

Primario obiettivo del suddetto disegno di legge consiste, anzitutto, nel «dotare le forze dell’ordine e la magistratura di nuovi, mirati e più efficaci strumenti» che perseguano il fine della prevenzione e del contrasto dei fenomeni di violenza intrafamiliare, nonché nell’assicurare «alle vittime più adeguati livelli di informazione, sostegno e assistenza in ogni stato e grado del procedimento»[44].

Fra le principali manifestazioni concrete di tale disegno rientra la previsione di una circolarità informativa tra autorità giudiziaria e autorità di pubblica sicurezza ai fini dell’adozione dei provvedimenti di tutela delle vittime: tale circolarità si traduce, nel riformato codice di procedura civile, nella disposizione di cui all’art. 473-bis.41 c.p.c. che prevede la necessità di indicare nel ricorso, oltre al contenuto ex artt. 473-bis.12 e 473-bis.13, anche gli «eventuali procedimenti, definiti o pendenti, relativi agli abusi o alle violenze», cui deve inoltre allegarsi «copia degli accertamenti svolti e dei verbali relativi all’assunzione di sommarie informazioni e di prove testimoniali, nonché dei provvedimenti relativi alle parti e al minore emessi dall’autorità giudiziaria o da altra pubblica autorità».

Se ne trae l’evidente considerazione che la Riforma Cartabia abbia inteso incidere sull’impianto normativo in un’ottica di tutela delle vittime vulnerabili: emblematica, in tal senso, la previsione di ammettere la videoregistrazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa o in sede di ascolto del minore, constatandosi anzitutto l’importanza di trasfondere negli atti anche il linguaggio non verbale, particolarmente significativo nella valutazione delle stesse, nonché volendosi scongiurare il rischio di vittimizzazione secondaria conseguente alla reiterazione degli ascolti nei diversi procedimenti (civile, penale, amministrativo) se le risultanze dell’adempimento acquisite agli atti vengano ritenute sufficienti ed esaustive, così come da art. 473-bis.45 c.p.c.:  per quest’ultima ragione si è già avuto modo poc’anzi di rammentare la rilevanza dell’istituto dell’incidente probatorio.

Del pari, riferimenti riguardo la crucialità di un coordinamento tra autorità giudiziarie civili, penali e minorili possono cogliersi anche nelle Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale: se, quindi, da un lato, non può sicuramente trascurarsi l’incontrovertibile valore che assume la disposizione di cui al nuovo art. 64-bis, rubricato «Comunicazioni e trasmissione di atti al giudice civile», dall’altro, il rilievo attribuito all’esigenza di circolarità dell’informazione impone, inevitabilmente, la predisposizione di relativi strumenti adeguati al perseguimento di tale finalità. A un vaglio critico, la norma in esame si presta a facili contestazioni in termini di inconciliabilità della dimensione teorica dell’importanza della comunicazione trasversale con l’attuale carenza pratica di meccanismi idonei a tenere in considerazione la diversità di criterio di valutazione della prova da adoperare nei giudizi civile, amministrativo e penale. Ma la criticità illustrata non è la sola che sembra attanagliare il dispositivo de quo: un ulteriore punctum dolens può ravvisarsi nella circostanza per cui la conoscenza, resa possibile dall’art. 64-bis disp. att. c.p.p., dei provvedimenti penali da trasmettersi senza ritardo, in copia, al Giudice civile ai fini della decisione dei procedimenti di separazione personale dei coniugi o delle cause relative ai figli minori di età o all’esercizio della potestà genitoriale non permette, comunque, di acquisire contezza delle ragioni motrici che spingono alla commissione della fattispecie criminosa. Ragioni che è noto dimostrarsi particolarmente utili ai fini della determinazione dell’elemento soggettivo del reato, nonché della quantificazione della pena: in altri termini, la conoscenza della verità soggettiva dell’autore di reato, che scongiura un’alterazione del dato di realtà, risulta cruciale, prospettandosi, in sede penale, conseguenze significative sul piano della libertà personale.

5. Il diritto di scelta del minore e considerazioni in materia di affido

«La vita familiare, se sana, ignora il diritto… è soltanto quando soffia il vento freddo del disinganno o della discordia, che ci si ricorda che esistono norme giuridiche pure in questo campo»[45].

La famiglia, una realtà pregiuridica il cui governo è sempre stato affidato, intuibilmente, a regole di formazione spontanea[46], può essere figurata come «un’isola che il mare del diritto deve solo lambire»[47] per correggere le eventuali deviazioni dall’ordine interno e sanare i risvolti patologici assunti dal rapporto.

Difficile che desti indifferenza, ad esempio, la circostanza di dover rimettere al diritto il compito di regolare la frequentazione di un figlio: come se l’ingerenza dei tentacoli del legislatore fosse percepita quale intrusione in un microcosmo tanto intimo, come quello familiare.

Non sorprende, dunque, constatare la tendenza, a lungo invalsa, di valorizzare convintamente il principio della bigenitorialità ex art. 337-ter c.c., in contesti di separazione tra coniugi, attraverso il sistema dell’affido condiviso, quale forma auspicabile consacrata con la L. 8 febbraio 2006, n. 54.

Ad agitare la comunità di psicologi e psicogiuristi, già a far tempo dagli anni Settanta del secolo scorso, erano gli interrogativi circa i criteri che potessero appalesarsi come maggiormente idonei a orientare l’organo giudicante nell’individuazione del genitore affidatario che si confermasse più adatto a rispondere al miglior interesse del minore: così, da un iniziale orientamento di matrice psicodinamica teso a indirizzare la scelta sulla base della qualità della relazione di attaccamento, dunque sulla migliore capacità di rispondere ai bisogni di accudimento quotidiani del bambino[48], la prospettiva andò virando verso la valorizzazione del “libero accesso” ad ambedue le figure genitoriali nell’ottica di assicurare al minore il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con entrambe.

Per quanto l’affido condiviso rimanga il sistema a oggi preferito in sede di regolamentazione dei rapporti tra genitori e figli a seguito di separazione, nella legislazione e nella giurisprudenza più recenti si attesta un’acuita sensibilità rispetto a circostanze di particolare delicatezza in cui risulti coinvolto il minore: in ordine al constatato abuso della previsione di affido della prole a entrambi i genitori in ossequio al principio di bigenitorialità, degradata ad automatismo cieco alle specificità dei singoli casi, non può sorvolarsi sulla mozione votata dal Parlamento europeo in tema di violenza domestica e affido condiviso, attesa la disposizione di quest’ultimo, sovente, pur in casi di maltrattamenti intrafamiliari, anche aggravati.

«Una conflittualità accesa tra genitori, accompagnata da un comportamento prepotente ed aggressivo del padre e da una oggettiva difficoltà della madre, impedisce di optare per il regime di affidamento condiviso in quanto non rispondente all’interesse del figlio minore»: sono le parole utilizzate dalla Corte di Cassazione, con sentenza dell’8 novembre 2021, n. 32404, in riforma della decisione di secondo grado che aveva disposto l’affido condiviso pur in un quadro di violenza domestica. Ma non solo: l’attenzione è stata altresì indirizzata ai limiti che v’è motivo di imporre al diritto alla bigenitorialità in ragione della diversa volontà del minore, in quanto «il rapporto affettivo, per natura incoercibile, non può essere imposto»[49]. Rimarcando, specularmente alla non obbligatorietà del dovere di frequentazione tra genitore e figlio, il diritto del minore di intrattenervi rapporti «quale esito di una sua scelta, libera ed autodeterminata»[50], la Suprema Corte si è mossa entro quel consolidato solco giurisprudenziale di pronunce avverse rispetto a quell’indifferenziato automatismo consistente nell’interpretare il migliore interesse del minore nella conservazione della bigenitorialità e non già nella modulazione del criterio di affido sulla base della sua volontà.

Preme, a riguardo, soffermarsi brevemente sulle disposizioni, di recente introduzione, attraverso le quali il legislatore ha inteso incidere sui profili processualistici “in materia di persone, minorenni e famiglie”, come già s’è avuto modo di dar cenno al paragrafo supra 1.

Riprendendo le considerazioni poc’anzi svolte, si rammenti, infatti, l’opera d’intensificazione dei poteri istruttori del giudice e di accelerazione delle tempistiche nei casi in cui abusi o violenze, relativi a procedimenti già definiti o ancora pendenti, siano allegati al procedimento di separazione, divorzio, affido del minore ovvero cessazione della convivenza: più precisamente, la “corsia preferenziale” riservata ai processi familiari con allegazioni di violenze o abusi si rende percorribile pur se le condotte contestate non siano riconducibili a specifiche fattispecie di reato, ma acquistino rilievo, ad esempio, ai fini della disciplina dell’affido del minore. Ridisegnando il ruolo rivestito dal giudice nell’ambito del contenzioso familiare, il nuovo procedimento uniforme vede ampliato lo spettro di garanzie e strumenti, a disposizione dell’organo giudicante, a sostegno dei soggetti più deboli: previsione evidentemente destinata a suscitare la critica di quella parte della dottrina che paventa una deriva verso una “marcata impronta inquisitoria” del processo, considerato l’ampio ventaglio di poteri esercitabili d’ufficio ora riconosciuti in capo al giudice nelle fasi di cognizione, della cautela e dell’esecuzione dei provvedimenti, nonché preso atto del ruolo maggiormente pregnante assunto dal pubblico ministero, parte effettiva nei giudizi sulla responsabilità genitoriale nei casi di condotte pregiudizievoli dei genitori e interveniente necessario in quelli di separazione, divorzio e affidamento. Si consideri, ad esempio, l’accertamento della fondatezza delle allegazioni rimesso al giudice ex art. 473-bis.42 c.p.c., potendo disporre a tal fine «mezzi di prova anche al di fuori dei limiti di ammissibilità previsti dal codice civile», ma ferma restando la salvaguardia della garanzia del contraddittorio e del diritto alla prova contraria: non è difficile constatare un manifesto appesantimento del ruolo del giudice, chiamato a svolgere un’attività istruttoria che già consente di spingersi oltre all’accertamento del mero fumus. Il giudice, ai sensi dell’art. 473-bis.44 c.p.c., «procede all’interrogatorio libero delle parti sui fatti allegati, avvalendosi se necessario di esperti o di altri ausiliari dotati di competenze specifiche in materia»: a quest’ultimo proposito, si ricordi l’implementazione di nuove categorie e dei relativi settori di specializzazione in relazione all’Albo dei Consulenti tecnici d’Ufficio a opera del Ministero della Giustizia con decreto n. 109/2023[51]. Nomina, quella del CTU, non da intendersi finalizzata all’accertamento della violenza, fungendo piuttosto da ausilio alla disposizione dei provvedimenti necessari, attraverso gli argomenti che ne vengono tratti circa la comprensione delle caratteristiche del nucleo familiare.

Ravvisata, all’esito della pur sommaria istruzione, la fondatezza delle allegazioni, il giudice provvede ad adottare i provvedimenti più idonei a tutelare la vittima e il minore, tra i quali l’ordine al coniuge o convivente di cessazione della condotta pregiudizievole, disponendo altresì l’allontanamento dalla casa familiare, nonché l’ordine di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dal beneficiario dell’ordine di protezione, la previsione dell’intervento dei servizi sociali del territorio, delle associazioni finalizzate al sostegno e all’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati…; altresì il giudice disciplina il diritto di visita, identificando modalità suscettibili di non minare la sicurezza della vittima e del minore.

Una riflessione, a riguardo, sorge spontanea: a un primo confronto con le nuove disposizioni, si è indotti a interrogarsi circa la conformità delle mere “allegazioni” a fondare i poteri di disposizione del giudice e, segnatamente, in relazione alla garanzia del giusto processo. Invero, il tema si pone su un piano strettamente formale, in quanto le allegazioni summenzionate, a livello sostanziale, richiedono un grado di precisione e approfondimento tale da doversi ritenere superata la criticità della questione terminologica.

I temi che, invece, possono stimolare la riflessione critica del lettore sono ancora numerosi: solo a titolo d’esempio, ci si domanda per quale ragione si prevedono termini ridotti, pur richiedendosi accertamenti che permettano di andare oltre il mero fumus; del pari, attraverso le previsioni di cui agli artt. 473-bis ss. c.p.c., da chiedersi è se non si stia, di fatto, esigendo dal giudice civile un celere espletamento di quell’attività – l’accertamento della fondatezza delle violenze – che, invero, dovrebbe essere di competenza del giudice penale[52].

Lasciando all’interprete il compito di maturare un pensiero critico a riguardo, resta, in questa sede, da soffermare l’attenzione sul portato pratico delle considerazioni svolte in ordine al margine d’intervento riconosciuto all’organo giudicante.

Responsabile dell’esecuzione dei mandati dell’autorità giudiziaria a protezione e tutela dei diritti delle persone minori di età è l’ente locale, che pur mantiene la propria autonomia amministrativa nell’attivazione e nella gestione degli interventi sia diretti che affidati a terzi: il mandato dell’autorità giudiziaria conferisce agli operatori dei servizi sociali il «dovere-potere di avvicinarsi alle persone per offrire loro un affiancamento sociale, socio-educativo, di protezione e promozione dei diritti dei soggetti minorenni»[53]. È evidente che si tratta di mandati ineseguibili senza una, «seppur minima, volontaria attivazione e adesione delle persone»[54]; mentre, per quanto concerne quelle parti dei mandati da eseguire in forma coercitiva (ci si intende riferire ai provvedimenti di allontanamento del maltrattante dal nucleo familiare ovvero di allontanamento del minore stesso, in caso di rischio od opposizione degli esercenti la responsabilità genitoriale), risulta sempre indispensabile l’intervento delle forze dell’ordine quali ausiliari del magistrato[55].

Attraverso le recenti disposizioni introdotte dalla Riforma Cartabia, anche il ruolo dei Servizi Sociali è stato oggetto di revisione: nell’ambito della disposizione relativa al caso di “rifiuto del minore a incontrare il genitore” ex art. 473-bis.6 c.p.c., si riscontra altresì in capo alla figura dell’assistente sociale il potere di assumere sommarie informazioni sulle cause del rifiuto. Il fondamento della previsione normativa deve ravvisarsi nel bisogno di offrire una tutela efficace in tutti quei casi in cui si paventi il rischio che la relazione affettiva tra il minore e il genitore ovvero tra il minore e gli ascendenti o altri parenti di ciascun ramo genitoriale possa venire compromessa.

Nondimeno, anche la riforma dell’art. 403 c.c. ha impattato sulle funzioni del Servizio Sociale, ora destinatario primo della presa in carico del minore, su disposizione della pubblica autorità, qualora questi sia «moralmente o materialmente abbandonato» oppure si trovi «esposto, nell’ambiente familiare, a grave pregiudizio e pericolo per la sua incolumità psico-fisica». La nuova formulazione, postulante l’«allontanamento da uno o da entrambi i genitori o dai soggetti esercenti la responsabilità genitoriale» del minore pregiudicato, è stata interpretata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Milano come ricomprendente la possibilità di agire ex art. 403 c.c. anche nelle situazioni in cui il minore è collocato insieme a un genitore su richiesta di quest’ultimo (collocamento che può, ad esempio, avvenire in Casa Rifugio insieme al genitore maltrattato), mentre da altre Procure come attivabile solo nel caso in cui sia la pubblica autorità a decidere il collocamento in sicurezza del solo minore. Un rilievo critico, con riguardo alla disposizione in esame, è da rinvenirsi nel rischio che dalla richiesta di attivazione dell’intervento ex art. 403 c.c. derivi una “penalizzazione” del genitore maltrattato, non immune dal rischio di essere additato come “non competente”, in quanto incapace di mettere in protezione i figli dalla violenza da lui direttamente subita e dal fenomeno della “violenza assistita” che sui minori si propaga.

Parimenti, gli artt. 473-bis.10 e 473-bis.27 c.p.c. interessano il contributo dei Servizi Sociali nella misura in cui, anzitutto, il giudice ha il potere di informare le parti circa la possibilità di avvalersi dell’istituto della mediazione familiare; inoltre, quando costui dispone l’intervento dei servizi sociali o sanitari, è tenuto a indicare specificamente l’attività a essi demandata, altresì stabilendo i termini per il deposito della relazione periodica sull’attività espletata. Con riguardo a quest’ultima, si rammenti che debbono essere tenuti distinti i fatti accertati, le dichiarazioni rese dalle parti e dai terzi e le eventuali valutazioni formulate dagli operatori giacché, qualora vertano su profili attinenti alla personalità delle parti, debbono trovare fondamento su dati oggettivi e su metodologie e protocolli convalidati dalla comunità scientifica, da menzionare nella relazione.

 

 

 

 

 

 

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[1] Cfr. G. Zanetti, Filosofia della vulnerabilità. Percezione, discriminazione, diritto, Roma, 2019. L’autore muove da una concezione metaforica di “logica” dell’ascolto, non intendendosi riferire a nulla di affine alla logica matematica leibniziana, ma piuttosto al modo di funzionamento, sul piano simbolico, del fenomeno sensoriale uditivo (dove l’udito rappresenta la prima fase della struttura della capacità di ascolto, seguita dalle operazioni di intendimento e comprensione) che comporta, inevitabilmente, una percezione non neutrale della realtà, giacché condizionata dalle personali influenze sociali e concezioni culturali.
[2] Cfr. H. Arendt, Denktagebuch. 1950-1973 (2002), tr. it. Quaderni e Diari. 1950-1973, Vicenza, 2007, come cit. da N. Mattucci, La politica esemplare. Sul pensiero di Hannah Arendt, Milano, 2021, 34.
[3] Cfr. Ead., Lectures on Kant’s political philosophy (1970), tr. it. Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, 2005, 123, come cit. da M. L. Giacobello, La “storia” di Hannah Arendt. Comprensione e giudizio, in Humanities, 2014, 133.
[4] Scrive, Hannah Arendt, che «nel giudizio si danno due operazioni. V’è l’operazione dell’immaginazione, in cui si giudicano oggetti che non sono più presenti, che sono stati rimossi dall’immediata percezione sensibile e perciò non colpiscono più direttamente; comunque, ora che l’oggetto è stato rimosso dai sensi esterni, diviene un oggetto per i sensi interni. Quando ci si rappresenta qualcosa che è assente, si mettono in un certo modo a tacere quei sensi per i quali gli oggetti ci sono dati nella loro oggettività. Il senso del gusto è un senso che consente, per così dire, di percepire se stessi: è un senso interno. Dunque, la Critica del Giudizio è generata dalla critica del gusto. Quest’operazione dell’immaginazione prepara l’oggetto all’“operazione della riflessione”. E questa seconda operazione costituisce la vera e propria attività del giudicare una cosa. Tale duplice operazione stabilisce la più importante condizione di tutti i giudizi, la condizione d’imparzialità, di “piacere disinteressato”» (Cfr. Ead., Teoria del giudizio politico, cit., 103).
[5] Sul punto, cfr. G. Zanetti, Filosofia della vulnerabilità, cit., 147, ove richiama i cinque sensi come «figure della vulnerabilità situata costituiscono dunque una narrativa di percezione non neutrale, cioè collegata a emozioni (paura, disgusto, pudore, vergogna ecc.) che non sono ininfluenti sulle rielaborazioni razionali con le quali si argomenta la discriminazione o l’inclusività, il suprematismo o l’eguaglianza».
[6] Quali efficaci strumenti interpretativi della normativa nazionale eventualmente oscura sul piano esegetico ovvero insufficiente, le fonti internazionali a tutela dei minori hanno iniziato ad approntare una regolamentazione dei diritti del fanciullo a far data dagli ultimi anni del secolo scorso. Con la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, stipulata a New York nel 1989 e ratificata dall’Italia due anni più tardi, s’è attribuita valenza al pensiero del minore capace di discernimento, riconoscendo, all’art. 12, il suo «diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa»; opinione da essere debitamente presa in considerazione «tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità» e «a tal fine, si darà, in particolare, al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale». Previsione che venne positivizzata nel nostro ordinamento a seguito della pronuncia della Corte costituzionale, nella sentenza del 16 gennaio 2002, n. 1, attraverso la quale, preso atto che la prescrizione di cui all’art. 12 della Convenzione fosse ormai entrata nell’ordinamento, è stata affermata la sua idoneità «a integrare – ove necessario – la disciplina dell’art. 336, secondo comma, cod. civ., nel senso di configurare il minore come parte del procedimento, con la necessità del contraddittorio nei suoi confronti, se del caso previa nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 cod. proc. civ.». Nell’ambito, poi, delle adozioni internazionali, la Convenzione dell’Aja del 1993, in Italia resa esecutiva il 12 maggio 1999, contempla, all’art. 4, il diritto del minore adottabile di essere «assistito mediante una consulenza» ed essere «debitamente informato sulle conseguenze dell’adozione e del suo consenso all’adozione, qualora tale consenso sia richiesto», tenuto conto dell’età e della sua maturità, nonché il diritto a che i suoi desideri e le sue opinioni vengano presi in considerazione. Lungo la stessa direttrice, la Convenzione di Strasburgo del 1996, nel prevedere misure procedurali finalizzate a promuovere l’esercizio dei diritti dei fanciulli, postula in capo a questi ultimi, qualora considerati dagli ordinamenti interni dotati di sufficiente capacità di discernimento, nelle procedure dinnanzi a un’autorità giudiziaria che li riguardano, i diritti di ricevere ogni informazione pertinente, di essere consultati ed esprimere la propria opinione, nonché di essere informati circa le eventuali conseguenze dell’attuazione della loro opinione e di ogni decisione. Il Protocollo facoltativo alla Convenzione di New York del 6 settembre 2000 a protezione dei fanciulli contro la loro tratta internazionale, la prostituzione infantile e la pedopornografia, si sofferma, all’art. 8, sui provvedimenti necessari a tutelarli, in tutte le fasi del procedimento penale, riconoscendone la vulnerabilità e adattando le procedure in funzione dei loro bisogni in quanto testimoni, nonché permettendo che le loro opinioni assumano significato durante il procedimento che veda i loro interessi personali in gioco, sì da fornire adeguata protezione. In termini non dissimili si esprime la disposizione di cui all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che rimarca il principio dell’obbligatorietà dell’ascolto del minore, sul cui solco si sono inseriti il Regolamento CEE n. 2201/2003 e, successivamente, le Linee guida sulla giustizia minorile del Consiglio d’Europa del 2010.
[7] Espressione nondimeno particolarmente infelice se confrontata con l’originale locuzione inglese “best interests”, che dovrebbe condurre a propendere, quantomeno in omaggio al dato letterale, per una traduzione al plurale dell’interesse da individuare in capo al minore, peraltro da qualificarsi come “migliori” o “più significativi” volendo serbare fedeltà alla grammatica che categorizza quale superlativo relativo la particella “best”.
[8] Consacrato il diritto del minore che abbia compiuto gli anni dodici, ma eventualmente anche di età inferiore se capace di discernimento, di essere ascoltato dal giudice all’interno dei procedimenti in cui debbano essere adottati provvedimenti che lo concernono, la norma prosegue disponendo l’esclusione motivata dell’ascolto «se esso è in contrasto con l’interesse del minore o manifestamente superfluo, in caso di impossibilità fisica o psichica del minore o se quest’ultimo manifesta la volontà di non essere ascoltato», nonché la previsione dell’ascolto solo se necessario «nei procedimenti in cui si prende atto di un accordo dei genitori relativo alle condizioni di affidamento dei figli».
[9] L’art. 473-bis.5 c.p.c. affida, anzitutto, al giudice il compito di condurre l’ascolto del minore, pur comunque potendo farsi assistere da esperti e ausiliari, nonché potendo parteciparvi, su espressa autorizzazione del giudice stesso, i genitori, gli esercenti la responsabilità genitoriale, i rispettivi difensori e il curatore speciale, i quali possono altresì proporre argomenti e temi di approfondimento. Assume, poi, particolare rilevanza l’onere del giudice di informare il minore, tenuto conto dell’età e del suo livello di maturità, della natura del procedimento e degli effetti dell’ascolto stesso, sottolineandosi la necessità che questo venga condotto «con modalità che ne garantiscono la serenità e la riservatezza». Si osservi, infine, che «dell’ascolto del minore è effettuata registrazione audiovisiva» e che, «se per motivi tecnici non è possibile procedere alla registrazione, il processo verbale descrive dettagliatamente il contegno del minore».
[10] Nell’ambito della psicoterapia familiare, il concetto di lealtà venne introdotto dallo psichiatra Ivan Boszormenyi-Nagy per indicare il legame che stringe i membri di un nucleo familiare e che trascende ogni loro conflitto: legame che può derivare da un rapporto biologico di parentela, così come da aspettative di reciprocità che vanno instaurandosi in una relazione. Posto, quindi, che la lealtà è la prima determinante che consente di preservare l’equilibrio familiare, la conflittualità genitoriale, nelle forme di esplicita o di ambigua, se non addirittura sommersa, ostilità, è potenzialmente idonea a ingenerare nel minore sofferenze, manifestantesi sia sul piano psichico (nelle forme dell’angoscia, dell’agitazione, di problemi di concentrazione, di un senso di insicurezza, di disturbi del sonno…) che prettamente fisico (si osservano somatizzazioni e perturbazioni dei sistemi cutaneo, respiratorio, digestivo…): s’ingenera, in tal modo, quello che, secondo il DSM-5, è ascrivibile all’interno della categoria dei “problemi relazionali”, ovvero il “conflitto di lealtà”.
[11] Esther Bick (1968), successivamente Donald Meltzer (1977) e più tardi Didier Anzieu (1992) elaborarono, con sottili differenze, il concetto di “identificazione adesiva”, che rimanda a un processo psicologico attraverso cui un individuo si indentifica in modo talmente stretto con un altro individuo, per combattere l’angoscia della rottura del proprio sé, che finisce per perdere il senso della propria individualità.
[12] Cfr. artt. 3, 31 e 32 Cost.
[13] Cfr. artt. 30 e 40 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e art. 8 del Protocollo alla Convenzione dei diritti del Fanciullo.
[14] Cfr. art. 1, c. 24, lett. i, L. 26 novembre 2021, n. 206.
[15] Si rammenti, a riguardo, il parere della Corte di Cassazione circa l’opportunità di delegare, se del caso, l’ascolto del minore a un organo specializzato e professionalmente competente a comprendere i suoi reali bisogni e interessi: «l’audizione del minore non rappresenta una testimonianza o un altro atto istruttorio rivolto ad acquisire una risultanza favorevole all’una o all’altra soluzione, bensì un momento formale del procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in merito alla vicenda in cui è coinvolto, deve svolgersi in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione, e quindi con tutte le cautele e le modalità atte ad evitare interferenze, turbamenti e condizionamenti, ivi compresa la facoltà di vietare l’interlocuzione con i genitori e/o con i difensori, nonché di sentire il minore da solo, o ancora quella di delegare l’audizione ad un organo più appropriato e professionalmente più attrezzato» (Cass., Sez. I, 26 marzo 2010, n. 7282).
[16] Cfr. art. 473-bis, c.p.c., con effetto dal 30 giugno 2023 e applicabile ai procedimenti instaurati successivamente a tale data.
[17] La complessità della nozione “suggestionabilità” si intuisce accogliendo l’ampia definizione fornita da S.J.  Ceci, M. Brunk, in Suggestibility of the Child Witness. A Historical Review and Synthesis, Psychological Bulletin, 1993, stabilita nel «grado in cui la codifica, la registrazione, il recupero e la relazione degli eventi da parte dei bambini possono essere influenzati da una gamma di fattori sociali e psicologici».
[18] Storicamente, la figura del giudice onorario minorile viene concepita proprio in quanto portatrice di una specifica competenza, intesa quale esito di scienza ed esperienza (I. Baviera, Diritto minorile, Milano, 1965). Ed è proprio la peculiare specializzazione a garantire un’adeguata tutela dell’interesse del minore (sul punto, cfr. Corte cost., 11 giugno 2008, n. 310), ragione per la quale considerevoli sono le perplessità avanzate in ordine alle recenti modifiche in materia apportate dalla Riforma Cartabia, di cui a discutersi sono le previsioni che riguardano in prima persona la figura del minore d’età (Cfr. F. Tonizzo, M.I. De Meis, La riforma della giustizia minorile. Intervenire con modifiche “dalla parte dei bambini”, in Welforum.it, 2021).
[19] Il riferimento è alla direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, recante “norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato”, che definisce “vittima” «una persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato», estendendo la definizione sino a includere anche la vittima indiretta, ossia «il familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona», intendendo per “familiare” sia il coniuge sia il convivente more uxorio sia «i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle, e le persone a carico della vittima».
[20] Si allude, anzitutto, all’art. 498 c. 4-ter c.p.p. che, per i reati dallo stesso menzionati, prevede che «l’esame del minore vittima del reato ovvero del maggiorenne infermo di mente vittima del reato» venga «effettuato, su richiesta sua o del suo difensore, mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico»: «di solito, si parla di vittima del reato, di soggetto passivo del reato e di persona offesa dal reato, a seconda che ci si riferisca, rispettivamente, all’ambito criminologico, penalistico, o processuale. In ogni caso, può essere interessante notare come la formula “vittima del reato” non sia del tutto estranea al lessico processualistico, come dimostra l’art. 498 comma 4-ter c.p.p.» (cfr. P. Paulescu, in voce Persona offesa dal reato, Enc. Dir., Milano, 2008). Si aggiunga, poi, la tutela offerta ai «figli della vittima minorenni o maggiorenni economicamente non autosufficienti»: si dispone, all’art. 316 c.p.p., che a «garanzia del risarcimento dei danni civili subiti dai figli delle vittime» il pubblico ministero è tenuto a procedere a sequestro conservativo dei beni mobili o immobili dell’imputato o delle somme o cose a lui dovute, pur nei limiti in cui la legge consente il pignoramento, «quando si procede per il delitto di omicidio commesso contro il coniuge, anche legalmente separato o divorziato, contro l’altra parte dell’unione civile, anche se l’unione civile è cessata, o contro la persona che è o è stata legata da relazione affettiva e stabile convivenza». Lo stesso Codice rosso, poi, con le modifiche apportate al Codice penale e al Codice di procedura penale, fa cenno all’obbligo informativo circa i «servizi di assistenza alle vittime di reato».
[21] Si allude, ad esempio, al delitto di “atti persecutori” ex art. 612 bis c.p., introdotto con d.l. 23 febbraio 2009, n. 11; nonché alla fattispecie di “istigazione a pratiche di pedofilia e pedopornografia” ex art. 414 bis c.p., inserito con L. 1 ottobre 2012, n. 172; la “riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù” ex art. 600 c.p., come previsto dal d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24 in attuazione della direttiva comunitaria 2011/36/UE; il delitto di “costrizione o induzione al matrimonio” ex art. 558 bis c.p., introdotta con L. 19 luglio 2019, n. 69.
[22] Così l’art. 472 c. 4 c.p.p., che enuclea i casi in cui è consentito al giudice di procedere a porte chiuse, tra cui l’esame testimoniale del minorenne; l’art. 498 c. 4 c.p.p. che, nel prevedere la conduzione dell’esame testimoniale del minorenne da parte del presidente su domande e contestazioni proposte dalle parti, introduce la possibilità di avvalersi «dell’ausilio di un familiare del minore o di un esperto in psicologia infantile» per “attutire” il contraddittorio; l’art. 398 c.p.p. che, per il catalogo di reati indicati dal c. 5-bis, richiama le particolari modalità attraverso cui svolgere l’incidente probatorio, qualora le «esigenze di tutela delle persone lo rendono necessario od opportuno», anche qualora «vi siano maggiorenni in condizione di particolare vulnerabilità».
[23] Si rammenti che nel codice Rocco la persona offesa era considerata alla stregua di un “postulante senza diritti” (sul punto, cfr. F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2012), atteso che un ruolo preminente era riservato all’aspetto sanzionatorio, dunque all’autore del fatto di reato; non dissimile sarà poi la prospettiva mantenuta dal codice del 1989, nella sua connotazione frammentata dell’identità della persona offesa.
[24] Cfr. L. Conz, Vittime di reato: dalla direttiva 2012/29/UE al d.lgs. 212/2015, Problemi e prospettive applicative – Atti del convegno di Cagliari 29 e 30 aprile 2016, in Arch. pen. web, come cit. da E. Conforti, A. Mari, M. Mosetti, in Persona offesa e processo penale, Milano, 2022, 2.
[25] Rilevano, a riguardo, le norme di cui agli artt. 121 c.p., 90 e 77 c.p.p. in materia di rappresentanza del minore all’interno del processo penale.
[26] L. 19 luglio 2019, n. 69 (c.d. Codice Rosso), recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”.
[27] Ibid.
[28] Cass., Sez. III, 17 maggio 2016, n. 45403.
[29] Cass., Sez. III, 23 novembre 2020 – 25 gennaio 2021, n. 2911.
[30] Ibid.
[31] Ibid.
[32] Il rilievo è di Guglielmo Gulotta, in occasione del terzo incontro del corso di formazione in materia di “Violenza domestica o di genere con la Riforma Cartabia. Le novità legislative introdotte dalla Riforma Cartabia in ambito civile e penale”, in data 11 dicembre 2023 (sul punto, cfr. anche G. Gulotta, Divieto di domande suggestive anche per il giudice, Commento a Cass., sez. IV, 6 febbraio 2020, n. 15331, in Sist. pen., 2020).
[33] Id., Strumenti concettuali per agire nel nuovo processo penale. Metodologia giudiziaria, Milano, 1990, 184-185.
[34] Una precisazione di sistema ci sembra doverosa a riguardo: le neuroscienze mostrano come la cognizione umana sia da ritenersi un indissolubile combinato d’intuizione e ragione. Come D. Kahneman ebbe a osservare, trattasi di due differenti sistemi che si pongono alla base del processo decisionale: il primo sistema cognitivo, ancorato alla sfera dell’impulsività, risulta strettamente legato alla percezione – dunque a quel processo psichico operante la sintesi dei dati sensoriali in forme dotate di significato – e radica le sue inferenze su principi di semplificazione mediante operazioni inconsce, rapide e poco dispendiose in termini di tempo e di sforzo cognitivo; per contro, il secondo, consistente nel ragionamento, si rende responsabile di processi di ponderazione e riflessione, sì andando a corrodere l’eventualità che una decisione possa muovere da quelle distorsioni cognitive che operano sul primo livello: si suole parlare delle cosiddette euristiche, ossia di scorciatoie cognitive che generano errori sistematici, altresì noti come bias. R. Nickerson definì il confirmation bias come la ricerca o l’interpretazione di prove in modo che esse risultino favorevoli a esistenti credenze, aspettative o ipotesi del soggetto interpretante: «guardiamo il mondo attraverso l’idea che ce ne siamo fatti andando alla ricerca delle conferme e non vedendo la disconferma», aveva detto G. Carofiglio, intervistato su “La versione di Fenoglio”. Dall’interazione dei due summenzionati sistemi cognitivi, da Kahneman definita come “teoria del duplice processo valutativo”, si genera una decisione più o meno ponderata a seconda della severità con la quale il sistema del ragionamento sottopone al suo vaglio l’incauta risposta promanante dal primo sistema. «Per troppo tempo abbiamo trattato la natura umana come se fosse una cosa o l’altra. Siamo razionali o irrazionali. Ci basiamo sulla statistica oppure ci affidiamo all’istinto. La logica apollinea contro le sensazioni dionisiache; l’id contro l’ego; il cervello rettile contro i lobi frontali. Queste dicotomie non sono solo false; sono distruttive» (cfr. J. Lehrer, How we decide, New York, 2009, tr. it. di S. Bourlot, Come decidiamo, Torino, 2009): una manichea contrapposizione, secondo J. Lehrer, che rischia d’ingenerare deviazioni dal solido sostrato neuroscientifico che preme sotto la superficie del senso comune.
[35] Definiamo “presupposto” la premessa non dimostrata della domanda, ovverosia la condizione logica prodromica alla formulazione di un interrogativo valido, idoneo cioè a rendersi suscettibile di una risposta che tenda a soddisfarne le richieste, dunque confermando, in via implicita, il presupposto (cfr. T. Dillon, Questioning, in O. Hargie, L. Sanders, D. Dickson, Social skills in interpersonal communication, London, 1986).
[36] G. Gulotta, Divieto di domande suggestive anche per il giudice, cit.
[37] G. Gulotta, D. Ercolin, La suggestionabilità dei bambini: uno studio empirico, in Psicologia e Giustizia. Anno 5, vol. 1, 2004.
[38] G. Gulotta, Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Milano, 1987.
[39] W. Stern, Zur Psychologie der Aussage, in Zeitschrift fur die gesamte Strafrechtswissenschaft, 1902.
[40] J.D. Read, D. Bruce, On external validity of questioning effects in eyewitness testimony, in International review of applied psych., 1984.
[41] Sul punto, cfr. A. Binet, La suggestibilitè, Parigi, 1900; W. Stern, Abstract of lectures on the psychology of testimony and on the study of individuality, in American Journal of Psychology, 1910; O. Lipmann, Pedagogical psychology of report, in Journal of Educational Psychology, 1911; J. Varendonck, Les temoignages d’enfants dans un process retentissant, in Archives de Psychologie, 1911; A. Clarke-Stewart, W. Thompson, S. Lepore, Manipulating children’s interpretations through interrogation, Kansas City, 1989; L. Rudy, G.S. Goodman, Effect of participation on children’s reports: implications for children’s testimony, in Developemental Psychology, 1991; G. Gulotta, D. Ercolin, La suggestionabilità dei bambini: uno studio empirico, in Psicologia e Giustizia. Anno 5, vol. 1, 2004.
[42] G.S. Goodman, J.E. Hirschman, D. Hepps, L. Rudy, Children’s memory for stressful events, Merrill-Palmer Quarterly, in APA PsycNet, 1991.
[43] D.d.l. 16 febbraio 2022, n. 2530, contenente “Disposizioni per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica”.
[44] Art. 5 d.d.l. 6 febbraio 2022, n. 2530, recante “Modifiche in materia di informazioni alla persona offesa dal reato”.
[45] A.C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Atti del convegno sulla riforma del diritto di famiglia, Padova, 1967.
[46] Sul punto cfr. A.M. Sandulli, sub art. 29 Cost., in Commentario al diritto italiano della famiglia, dir. da Cian-Oppo-Trabucchi, Padova, 1992.
[47] A.C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Pagine sparse di diritto e storiografia, Milano, 1957.
[48] Sul concetto di “genitore psicologico”, cfr. G.B. Camerini, Aspetti legislativi e psichiatrico-forensi nei procedimenti riguardanti i minori, in V. Volterra (a cura di), Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica, Milano, 2006, 140.
[49] Cass., Sez. I, 23 aprile 2019, n. 11170.
[50] Cass., Sez. I, 5 dicembre 2020, n. 6471.
[51] Si segnala, a tale specifico riguardo, l’indicazione ai professionisti iscritti all’Albo degli psicologi di cui alla categoria n. 2 (Area famiglia) di dotarsi di competenze in materia di psicologia delle relazioni familiari (separazioni, divorzi, affidamento…), di valutazione della capacità genitoriale e di psicologia giuridica o forense; alla categoria n. 3 (Area minori) appartengono, invece, gli esperti nella valutazione della capacità di intendere e volere (penale e civile) e della capacità di stare in atti dei minori di età, della capacità del discernimento in ambito civile, della capacità testimoniale in ambito penale, nella previdenza minori (indennità di accompagnamento, indennità di frequenza, legge 104…), in psicodiagnosi (diagnosi psicologica, diagnosi neuropsicologica…), nella valutazione del danno e in psicologia giuridica o forense. Sul punto, cfr. Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi (CNOP), Linee di indirizzo del Consiglio Nazionale a supporto dei rappresentanti ordinistici nei Comitati presso i Tribunali per la tenuta degli Albi dei CTU (ex DM 109/23), 26 gennaio 2024.
[52] Una riflessione su cui s’invita il lettore a indugiare concerne il discrimen tra quei fatti che assumono rilievo penale – rientrando, quindi, nel perimetro delineato dall’art. 572 c.p. – e quei fatti ascrivibili a situazioni di “elevata conflittualità” (cfr. Cass., Sez. VI, 15 settembre 2023, n. 37978): considerazioni di estrema rilevanza per il tema di nostro interesse concernono le conseguenze pregiudizievoli allo sviluppo cui potrebbe andare in contro il minore che viva all’interno di un contesto familiare altamente conflittuale, per quanto non qualificabile come “maltrattante”, – di per sè inidoneo a far configurare l’ipotesi di “violenza assistita”.
[53] Ordine degli avvocati di Milano, Relazioni tra avvocati, servizi sociali e servizi all’infanzia del Comune di Milano. Linee guida e raccomandazioni operative, Milano, 2022.
[54] Ibid.
[55] Ibid.

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