Quali sono i benefici e i rischi del coinvolgimento diretto dei figli nella mediazione familiare?

Quali sono i benefici e i rischi del coinvolgimento diretto dei figli nella mediazione familiare?

Sommario: 1. Premesse generali – 2. Le correnti di pensiero – 3. Rischi e benefici del coinvolgimento dei figli – 4. Conclusioni

 

Abstract. Il coinvolgimento dei figli negli incontri di mediazione è una delle questioni più controverse in materia di mediazione familiare. Detto strumento stragiudiziale di risoluzione delle controversie trova il suo principale (ma non unico) ambito di applicazione proprio nelle coppie sposate o di fatto con figli che vogliano divorziare o separarsi e, dunque, si trovino nella necessità di essere supportati da un professionista nelle questioni inerenti alla gestione dei figli.

Quest’ultimi sono, pertanto, il perno intorno al quale ruota la mediazione familiare e l’attenzione dei genitori e del mediatore, in quanto tutte le decisioni prese in questa sede produrranno inevitabilmente effetti nella sfera non solo prettamente giuridica, ma anche (e, forse, soprattutto) emotiva, affettiva, relazionale e sociale dei figli. Tali considerazioni si fanno, del resto, sempre più complesse e articolate tanto più l’età della prole si abbassi.

Chiedersi, dunque, se i figli debbano essere coinvolti negli incontri di mediazione familiare è una domanda non solo lecita, ma imprescindibile che il nostro ordinamento e gli operatori di sistema devono porsi.

1. Premesse generali

Premettendo che una risposta definitiva e univoca alla domanda manchi, perché diverse sono le scuole teoriche e gli approcci che adottano i mediatori familiari (anche in ragione della poliedricità della formazione di base di partenza degli stessi), si procederà in questo articolo ad analizzare il perché di questa diversità di vedute e quali siano i vantaggi e gli svantaggi di questa scelta.

Appare, però, fin da subito evidente che la ragione della mancanza di una netta risposta, risieda nel fatto che si tratta di una questione altamente delicata, che fuoriesce dal campo del giuridico strictu sensu[1] e che comporta la necessità di analisi e di interrogativi di stampo psicologico e sociale.

Prima, dunque, di addentrarsi nelle varie correnti, occorre sottolineare un concetto sempre valido: è il caso concreto, ognuno diverso dall’altro, a determinare se debbano o meno essere coinvolti i figli. Aprioristicamente nessuna scelta può essere fatta.

Del resto, la maggior parte delle coppie che si rivolgono al mediatore familiare ricorrono a questo strumento per cercare di riorganizzare la vita familiare dopo la separazione o il divorzio, in alcuni casi addirittura per cercare di capire come comunicare questa scelta ai figli o, comunque, in una fase critica del ciclo familiare in cui sono coinvolti direttamente o indirettamente i figli. Residuali, invece, sono i casi di coppie senza figli che si rivolgono alle sedi ove si esercita la mediazione familiare.

Ciò accade perché, la rottura del legame coniugale (o anche solo della convivenza o del rapporto affettivo) non determina il venir meno del ruolo genitoriale che, pertanto, permarrà in capo alle parti che vogliono il divorzio o la separazione. Si rimane genitori, insomma, anche se non si è più una coppia.

Tuttavia, a causa della rottura del legame affettivo e della conflittualità che si vengono a creare nella coppia, il ruolo genitoriale rischia di passare in secondo piano. Eppure, è proprio a causa di tale rottura che i figli si trovano a subire necessariamente e senza possibilità di scampo alcuna (soprattutto se molto piccoli) gli esiti delle scelte dei genitori e di quanto accade al termine degli incontri di mediazione familiare.

Ogni mediatore familiare, pertanto, è chiamato in prima persona a fare una scelta che non è solo teorica, ma soprattutto pratica sulla possibilità e necessità di entrare in contatto diretto con i figli delle parti che a tale figura si sono rivolte e di coinvolgerli o meno ad una parte degli incontri.

Certamente non è sempre necessario (e, anzi, talvolta è persino meno preferibile) che i figli vengano coinvolti direttamente, partecipando alle sedute come parte attiva.

In ogni caso, però, che sia diretta o anche solo indiretta la loro partecipazione, comunque il mediatore familiare ne assume la “rappresentanza temporanea”, richiamando costantemente i genitori ad agire e prendere decisioni nel loro interesse. Porre l’accetto sulla genitorialità è indispensabile.

Infatti, è bene precisare, la mediazione familiare si prefigura l’obiettivo di garantire una soluzione condivisa dai genitori, frutto della scelta consapevole e con il tempo maturata, nel bene del gruppo familiare globalmente inteso, ma con particolare riguardo all’interesse dei minori, dei quali deve essere assicurata la salute psico-fisica e il rapporto con entrambi i genitori e le rispettive famiglie di origine.

2. Le correnti di pensiero

Fatte le soprascritte premesse, a titolo puramente esemplificativo, si espongono di seguito i principali approcci teorici sul tema.

Uno dei modelli di approccio favorevoli alla partecipazione dei figli è il modello terapeutico di F. Bernardini e M. Busellato[2], i quali sottolineano l’importanza della partecipazione dei figli al processo di mediazione familiare, sul presupposto che, essendo necessariamente coinvolti emotivamente nelle dinamiche familiari, la loro voce dovrebbe essere ascoltata.

Segue l’approccio sistemico-relazionale di D. Mazzei, che concepisce la partecipazione dei bambini come una vera e propria fase del processo di mediazione familiare, che deve avvenire attraverso il ricorso a tecniche come il “disegno congiunto della famiglia[3]” (nate nell’ambito terapeutico, ma adattate alla mediazione familiare). L’obiettivo di Mazzei è quello di far comprendere ai genitori, soprattutto in ipotesi in cui nella coppia vi è un’alta conflittualità, qualcosa di più sulla situazione psicologica dei loro figli e, così, focalizzare l’attenzione su di loro.

Vi sono poi i cosiddetti modelli strutturati, diretti all’accordo, che escludono tassativamente la partecipazione dei figli alla mediazione familiare, ritenendo che questi debbano rimanere al di fuori della conflittualità dei genitori: la separazione e il divorzio riguardano gli adulti e, più nello specifico, gli adulti e il mediatore familiare.

Dunque, seppur le correnti di pensiero possano sussumersi all’interno di due macro categorie, quella di coloro che ritengono utile (financo necessaria) la partecipazione dei figli e coloro invece che ne rinvengono numerosi svantaggi, diverse sono le cosiddette “terre di mezzo”: da chi, come R. Ardone, ritiene che la loro convocazione sia preferibile quando tra i genitori si sia costituita almeno una base di dialogo e il clima della seduta appaia più disteso, ad altri che ritengono utile la partecipazione quando siano i genitori stessi o i figli a richiederlo e i figli abbiano raggiunto una certa età di maturità, ad altri come J. Haynes e I. Buzzi[4] che ritengono importante la presenza dei figli laddove si debbano rivedere gli accordi precedentemente raggiunti dai genitori, ad altri ancora (come L. Parkinson) che ritengono necessario e prodromico un lavoro sulle motivazioni che conducono alla scelta del coinvolgimento dei figli prima di inserirli direttamente nel contesto della mediazione familiare.

Al di là della scuola di pensiero, evidenziando ciascuna un ottimo spunto di riflessione e di approccio del mediatore alla tematica, al fine di prendere la migliore scelta possibile per il caso concreto è molto importante che il mediatore familiare svolga un lavoro congiunto con i genitori non solo su quanto rappresenta la mediazione, in cosa consista lo strumento e quali siano gli obiettivi, ma anche sulle modalità di coinvolgimento dei figli agli incontri. In tale ultimo caso occorrerà, poi, comprendere se il coinvolgimento dovrà avvenire insieme ai genitori o con incontri vis a vis tra mediatore e figli.

L’attività prodromica è, dunque, di estrema importanza, consistendo nello studio attento e congiunto tra mediatore e genitori circa la cosa da fare prima, durante e dopo l’incontro con i figli. Inoltre, nelle ipotesi in cui i genitori siano ricorsi allo strumento della mediazione familiare specificatamente per comunicare ai figli la volontà di separarsi o divorziare, la valutazione sul coinvolgimento rientra tra i temi principali da affrontare per comprendere come meglio comunicare detta scelta.

Tuttavia, operata la scelta, gli interrogativi e l’attività, non si esauriscono. Anche una volta assunta la decisione di coinvolgerli, il mediatore familiare dovrà predisporre un’adeguata pianificazione non solo sul se ricevere i figli insieme ai genitori o separatamente, ma sulla comunicazione ai genitori delle conversazioni tra mediatore e figli e su cosa accadrà se il figlio/la figlia non dia il suo consenso a comunicare quanto detto al mediatore familiare, sull’avviso ai genitori di non dare istruzioni al bambino prima dell’incontro né di interrogarlo o di rimproverarlo dopo su quanto detto al mediatore. Come si esporrà di seguito, infatti, la triangolazione è uno dei rischi da valutare e da esporre con attenzione ai genitori.

3. Rischi e benefici del coinvolgimento dei figli 

Possono annoverarsi i seguenti rischi, quantomeno ipotetici, derivanti dalla scelta di coinvolgere i figli agli incontri di mediazione familiare:

  • inasprimento del coinvolgimento dei figli nella conflittualità genitoriale con conseguente aumento della loro sofferenza a causa della maggiore coscienza del conflitto. E’ per tale rischio che alcuni mediatori familiare preferiscono non incontrarli, cercando così di tutelarli dalla conflittualità genitoriale;

  • rafforzamento della posizione dei figli verso uno dei genitori, con conseguente indebolimento dell’altro e, dunque, coalizzazione con un genitore contro l’altro. Questi sono i rischi legati al fenomeno della cosiddetta PAS (Sindrome dell’Alienazione Parentale) e della triangolazione. In alcuni casi il rischio che può concretizzarsi è, addirittura, quello della presa di distanza da entrambi i genitori;

  • confusione del ruolo del mediatore familiare con quello di un terapeuta o dell’avvocato del minore e così rischiare di far slittare l’intervento del mediatore in altri contesti diversi, quali quello (per esempio) della terapia familiare;

  • aumento della pressione nel figlio per la percezione di “dovere” esprimere per forza i propri punti di vista e sentimenti e aumento della pressione subita direttamente da uno o entrambi i genitori su cosa dire al mediatore, quasi ricevendo delle istruzioni per orientare il mediatore verso una determinata posizione. E’ per tale ragione che il lavoro preliminare genitori-mediatore sul coinvolgimento dei figli è indispensabile;

  • non completa consapevolezza e capacità da parte del figlio, soprattutto se molto piccolo, di comprendere i propri interessi e il miglior bene in una logica di lungo termine;

  • incapacità dei genitori di gestire la propria sofferenza di fronte ai figli e maggiore difficoltà di esprimersi con sincerità con conseguente allungamento dei tempi per addivenire ad un accordo;

  • nascita di acrimonia o ulteriori conflitti tra genitori e figli a causa dei feedback dei figli sui genitori con conseguente rischio di diventare (anche nell’inconsapevolezza dei genitori stessi) il loro capro espiatorio.

Al pari degli aspetti negativi, numerosi e altrettanto impattanti sono i possibili benefici del loro coinvolgimento:

  • aiuto diretto ai figli sull’accettare, comprendere e reggere la situazione di conflitto genitoriale, grazie al coinvolgimento e alla partecipazione agli incontri. La mediazione familiare consente loro di avere un quadro realistico di ciò che sta avvenendo in famiglia e di essere supportati nella sua comprensione, con conseguente maggiore e più facile adattabilità alle decisioni contenute nell’accordo di mediazione;

  • valorizzazione del loro ruolo e dell’importanza dei loro sentimenti e pensieri, trattati con rispetto in linea con la Riforma Cartabia[5] proprio in tema di ascolto del minore;

  • aiuto ai genitori ad ascoltare meglio i propri figli, a facilitarne la comunicazione e a spostare la loro attenzione dal conflitto ai bisogni del figlio. Nei casi di alta conflittualità, dove il ruolo genitoriale viene dimenticato, può essere di particolare ausilio;

  • nel caso di incontri del mediatore familiare solo con i figli: opportunità per i figli di esprimersi liberamente senza paura di essere sentiti e giudicati dai genitori. Il mediatore rappresenta per il bambino un confidente imparziale cui esternare paure e ansie che non ha mai potuto o non è mai riuscito a manifestare ai genitori. In conseguenza di ciò, è un’opportunità di aiuto ai figli ad elaborare i messaggi che vogliono far arrivare ai genitori (o ad altre persone coinvolte nella crisi familiare) e a sentirsi in grado di trasmetterli.

4. Conclusioni

Ordunque, nonostante l’importanza di tenere in considerazione tutti quelli che sono i rischi (più che veri e propri svantaggi) del coinvolgimento dei figli in mediazione, non può che sottolinearsi l’importanza della presenza del figlio, che in alcuni casi diventa la chiave di volta nonché lo strumento essenziale per dare o, talvolta, ri-dargli voce (soprattutto se minore) e, al contempo, aiutare i genitori a dipanare il conflitto e giungere ad un accordo.

Attraverso il suo coinvolgimento il figlio trova, infatti, un luogo sicuro, protetto e neutro per dar voce ai suoi pensieri, ai suoi stati d’animo, alle sue emozioni, senza sentirsi escluso o valutato come un soggetto meramente passivo di scelte che, pur riguardandolo, non lo hanno mai preso in considerazione.

Allo stesso tempo, il percorso di mediazione familiare permetterà ai genitori di porre l’attenzione su quella che è la dimensione genitoriale, mettendo in secondo piano la dimensione strettamente conflittuale, che non deve nascondere né deve prevalere sul ruolo genitoriale, che mai viene meno.

Pertanto, non solo la partecipazione alla mediazione familiare è uno strumento per “liberare” il bambino dal piuttosto probabile e rischioso ruolo di mediatore dei genitori, ma anche un’opportunità per riportare l’attenzione sui suoi bisogni e sulle sue esigenze.

Tuttavia, al di là del coinvolgimento diretto o indiretto dei figli, attraverso la mediazione familiare comunque i figli, grazie all’intervento del mediatore familiare, si riappropriano del loro ruolo di figli e bambini, essendo il professionista-mediatore ad occuparsi dei problemi e della conflittualità della coppia. In effetti, ciò che con sempre maggiore forza si sta registrando è che tale pratica mediatoria comporti grossi benefici anche, e forse soprattutto, per i minori.

Si è notato, infatti, come il tentativo con alta probabilità infruttuoso dei genitori di “proteggere” i propri figli, escludendoli da tutto il percorso di separazione e divorzio (ivi compreso il percorso di mediazione familiare) comporti l’insorgenza nel minore di varia e talvolta complicata sintomatologia, o addirittura di patologie. Ciò che si può fare nel percorso di mediazione familiare, anche attraverso il coinvolgimento dei figli, non è tanto capire con quale genitore il figlio preferisca stare, ma permettergli di esprimere in un contesto protetto la propria esperienza, evitando, tra l’altro, di fargli processare ed introiettare informazioni errate ed inesatte su quanto stia accadendo ai suoi genitori e, quindi, alla sua famiglia.

 

 

 

 

 

[1] Nonostante negli ultimi anni, soprattutto grazie alla Riforma Cartabia, la mediazione familiare stia entrando nel linguaggio di tutti i giorni, non solo tra gli operatori di sistema, come strumento parallelo o alternativo al giudizio in Tribunale per la risoluzione di controversie di natura familiare, soprattutto se coinvolgenti figli minori, questo strumento semplicisticamente definito come un ADR (id est Alternative dispute resolution) tout court, in realtà rappresenta qualcosa di più.
Certamente la mediazione rientra, al pari dell’arbitrato o della negoziazione, tra gli strumenti di risoluzione stragiudiziale o alternativa delle controversie, le cosiddette ADR per l’appunto, ma la mediazione familiare nello specifico (sotto branca della mediazione) presenta delle caratteristiche peculiari che portano a definirla un ADR latu sensu.
E’ l’oggetto, la materia di intervento della mediazione familiare che, per la particolare sensibilità e interdisciplinarità delle competenze dei professionisti, la differenzia da una mediazione commerciale o civile o da un arbitrato, in cui le questioni giuridiche o prettamente economiche occupano tutto il campo del mediare. Le relazioni interpersonali intime e familiari che sono l’oggetto del conflitto della coppia in crisi sono al centro della mediazione familiare che, seppur non dovendosi confondere con una terapia o una serie di sedute psicologiche, affronta come uno strumento clinico-sociale, non bypassando le emozioni ma cercando di migliorare la comunicazione dei bisogni e delle esigenze, ponendo al centro i figli.
Il lavoro sulle emozioni e il coinvolgimento eventuale dei minori, totalmente assente tanto nelle altre tipologie di mediazione quanto più in generale nelle ADR, sono i principali protagonisti della mediazione familiare.
[2] Vedasi: F. Bernardini e M. Busellato, “Mediazione familiare: modelli e tecniche per la gestione dei conflitti”; F. Bernardini “La mediazione familiare: una via per la risoluzione dei conflitti”; M. Busellato, “Psicologia e mediazione familiare”. Soprattutto, l’ultimo testo citato enfatizza la necessità di ascoltare e proteggere i bambini e gli adolescenti dal conflitto.
[3] Si tratta di una tecnica o strumento espressivo e proiettivo utilizzato in ambito terapeutico e in mediazione familiare (e in ambiti terapeutici) per facilitare la comunicazione tra i membri della famiglia, soprattutto nei casi di conflitto, separazione o difficoltà relazionali, in presenza più che altro di bambini, per esplorare dinamiche familiari in modo non verbale. L’attività di disegno viene svolta da più membri della famiglia su un foglio comune, rappresentando la propria famiglia o una situazione familiare.
[4] Vedasi: J. Haynes e I. Buzzi, “Introduzione alla mediazione familiare. Principi fondamentali e sua applicazione”;
[5] A tal riguardo vedasi l’articolo “L’ascolto del minore nel processo e negli incontri di mediazione familiare alla luce della riforma Cartabia”, di Elisa Cofano, Salvis Juribus, 13/02/2025, Roma.

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