Riservatezza nella Mediazione Familiare: limiti, obblighi e casi di decadenza
Sommario: 1. Le fonti normative – 2. Ma in che modo le parti vengono a conoscenza di questo diritto-dovere di riservatezza e cosa accade se non lo rispettano? – 3. Infine, quando l’obbligo di riservatezza decade?
Tra i principi cardine della mediazione familiare vi è quello della riservatezza. Pertanto, al fine di dissipare ogni dubbio circa la privacy di quanto accada e venga affermato durante gli incontri di mediazione da parte dei mediandi, occorre precisare che la nostra normativa prevede chiare e inequivocabili disposizioni sulla questione.
Tutto ciò che avviene e viene dichiarato alla presenza del mediatore familiare da parte delle parti che allo stesso si rivolgono non solo è di natura confidenziale, ma, soprattutto, è inutilizzabile in successivi ed eventuali procedimenti giudiziari (salvo eccezioni).
Tale riservatezza si esplica sia su un piano interno che su un piano esterno.
1. Le fonti normative
Quanto al primo aspetto, il piano interno, che grava sui soggetti che prendono parte alla procedura di mediazione familiare, la riservatezza è disciplinata dall’art. 9 del D. Lgs. 28/2010, rubricato giust’appunto “Dovere di riservatezza”: “Chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell’organismo o partecipa al procedimento di mediazione è tenuto all’obbligo di riservatezza rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento medesimo. ([1]).
Rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite nel corso delle sessioni separate e salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni, il mediatore è altresì tenuto alla riservatezza nei confronti delle altre parti”.
Pertanto, si tratta di un obbligo che grava su tutti i presenti all’incontro.
Inoltre, la riservatezza cui è tenuto il mediatore familiare concerne non solo gli incontri congiunti, ma anche quelli individuali (id est separate sessions), salvo che ottenga il consenso alla divulgazione da parte della parte o mediando dalla quale le informazioni provengono. Del resto, la ratio degli incontri individuali verrebbe altrimenti meno, essendo questi previsti proprio per permettere alle parti di parlare liberamente delle questioni che si andranno ad affrontare negli incontri successivi e dei problemi della coppia nella certezza che l’altra parte non ne verrà a conoscenza.
Quanto alla cosiddetta riservatezza esterna, è l’art. 10 D. Lgs. 28/2010 (“Inutilizzabilità e segreto professionale”) ad imporla: “Le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni.
Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio”.
Dunque, il mediatore non può nemmeno essere chiamato a testimoniare in merito a ciò che sia emerso durante il procedimento di mediazione familiare, salvo che in due casi: se vi sia un’autorizzazione esplicita delle parti o se subentri un obbligo legale a riguardo.
Sono, invece, pienamente producibili in giudizio tanto la domanda di mediazione quanto l’adesione alla procedura medesima, trattandosi di documenti necessari per la verifica del rispetto del principio di simmetria tra la domanda di mediazione e la domanda giudiziale[2].
E, ancora, sono producibili i verbali del primo incontro di mediazione e dell’ultimo[3]. Tra questi, dunque, è altresì producibile il verbale negativo redatto in conseguenza del rifiuto di una delle parti di partecipare alla mediazione, trattandosi di un documento necessario per il giudice al fine di valutare la disponibilità della parte a giungere a una soluzione consensuale, considerando che tanto il rifiuto di partecipare alla mediazione quanto il fallimento della stessa possono influire sull’esito del procedimento giudiziario[4].
A tal riguardo, il Tribunale di Roma, con ordinanza del 14.12.2015, ha ritenuto lecita proprio la trascrizione nel verbale di udienza delle motivazioni dell’assenza delle parti alla mediazione familiare, in quanto informazioni necessarie per valutare la ritualità della procedura. Tuttavia, ha escluso la possibilità di utilizzare nel processo le dichiarazioni sostanziali fatte durante la mediazione, in quanto protette dal principio di riservatezza.
Sono, pertanto, solo le informazioni emerse nel corso degli incontri di mediazione familiare a non poter essere condivise con terzi né producibili in giudizio. Del resto, il clima confidenziale e di fiducia che il mediatore familiare instaura con le parti e che permette all’istituto di svolgere la sua funzione verrebbero disattesi e le parti non ricorrerebbero certamente allo strumento in questione, se non sentissero di potersi esprimere liberamente in un luogo protetto e sicuro per addivenire a soluzioni consensuali. La stessa ratio soggiacente agli incontri individuali si applica, insomma, a quelli congiunti.
Si ricorda, infatti, che il minore formalismo della procedura stragiudiziale della mediazione familiare e il setting predisposto in maniera tale che le parti possano sentirsi nella condizione di affrontare la rottura della coppia e la gestione dei figli in un contesto di serenità e riservatezza sono gli aspetti che permettono alla mediazione familiare di ottenere buoni risultati nel settore delle separazioni e divorzi nonché sulla gestione dei figli rispetto al percorso giudiziario “tradizionale”.
E sempre in conseguenza di quanto appena ribadito, l’obbligo di riservatezza investe non solo il mediatore ma anche e chiaramente le parti in prima persona. Queste non solo devono sentirsi protette rispetto alla figura professionale cui si rivolgono, ma anche rispetto alla (impropriamente detta) controparte: anche le parti sono, dunque, tenute a rispettare il principio di riservatezza, evitando di rivelare o utilizzare in modo improprio le informazioni emerse durante il processo di mediazione familiare.
Tale obbligo si estende al legale, cui il mediando si sia rivolto: sia che sia presente agli incontri sia che sia informato successivamente dal suo assistito, egli non può rivelare le informazioni in sede giudiziaria o a terzi, salvo che ci sia un consenso esplicito, sia previsto dalla legge in particolari ipotesi e non si pregiudichino i terzi.
Ecco perché, in una recente sentenza[5], il Tribunale di Milano ha condannato un avvocato (disponendo la trasmissione degli atti al Consiglio di Disciplina dell’Ordine degli Avvocati per eventuali provvedimenti disciplinari) proprio per aver riferito in giudizio le difese della controparte emerse durante la mediazione familiare, così violando l’art. 10 del D.lgs. 28/2010, nonché l’art. 13 del Codice Deontologico Forense (CDF).
Quanto specificatamente alla figura del mediatore familiare, egli avrà inoltre l’obbligo di conservare tutti i documenti, le comunicazioni e le informazioni relative alla mediazione per un periodo di tempo determinato dal Regolamento UE sulla protezione dei dati personali (GDPR) e dal Codice civile, al fine di garantire la corretta gestione dei dati personali e la sicurezza delle informazioni.
Solo al termine del periodo di conservazione legislativamente previsto, i documenti potranno essere distrutti in modo sicuro.
2. Ma in che modo le parti vengono a conoscenza di questo diritto-dovere di riservatezza e cosa accade se non lo rispettano?
Nel primo incontro di mediazione familiare, altrimenti definitivo come incontro informativo o di pre-mediazione, le parti sottoscrivono un accordo scritto di adesione e conoscenza della procedura e delle regole che la governano.
Detto accordo contiene un articolo interamente dedicato all’impegno di riservatezza e non divulgazione, salvo che sopraggiungano deroghe al principio in questione e, dunque, obblighi legali di comunicazione (infra).
Di seguito, si riporta un esempio di articolo, contenuto all’interno di un modulo di adesione alla procedura, che le parti vanno a sottoscrivere:
“Principio di Riservatezza:
Le parti convengono che tutte le informazioni, dichiarazioni, documenti e discussioni che emergono durante il processo di mediazione familiare sono strettamente riservate. Le informazioni non possono essere divulgate a terzi, né utilizzate in altri procedimenti legali o giuridici, inclusi procedimenti giudiziari, salvo specifiche eccezioni previste dalla legge.”
Tuttavia, nonostante la conoscenza dell’obbligo, il principio di riservatezza potrebbe non essere rispettato da una o entrambe le parti, dai rispettivi legali o dal mediatore. Come, dunque, comportarsi in tali situazioni e cosa accade?
Innanzitutto, se la violazione proviene dal mediatore familiare, questi potrà vedersi inflitte sanzioni disciplinari da parte degli ordini professionali di appartenenza, oltre alle conseguenze civili per i danni causati. Lo stesso, come si ha avuto modo di evidenziare nel precedente paragrafo, accade nel caso in cui la violazione sia perpetrata dal legale di una delle parti.
Se, invece, è direttamente una delle parti a violare l’accordo di riservatezza, le informazioni divulgate (nonostante il divieto) non potranno essere ammesse in giudizio e, quindi, saranno escluse dal giudice come prove. Saranno, cioè, inutilizzabili. Vieppiù: la parte che ha violato l’obbligo di riservatezza sarà responsabile per i danni eventualmente causati, fermo restando il diritto dell’altra di richiedere la tutela legale adeguata.
Qualora una delle parti si avveda delle violazioni dell’altra nel corso degli incontri di mediazione familiare, può altresì comunicarlo al mediatore e scegliere anche di interrompere il percorso di mediazione. In alternativa, può essere lo stesso mediatore a decidere di sospendere la mediazione o comunicare all’autorità competente la violazione perpetrata. Se dalla divulgazione non autorizzata di informazioni sono derivati, poi, danni di varia natura (da quelli economici a quelli morali), la parte lesa potrà agire per ottenere il risarcimento dei danni subiti ex art. 2043 c.c.
3. Infine, quando l’obbligo di riservatezza decade?
Se, però, la riservatezza nella mediazione familiare è un principio fondamentale, certamente come ogni principio non è assoluto, essendo necessario il contemperamento e il bilanciamento dello stesso con altri principi e, in particolare, con l’esigenza di garantire l’efficacia e la correttezza del processo o in ragione della sussistenza nel caso di specie di un interesse superiore.
Innanzitutto, essendo l’interesse del minore il best interest non solo della mediazione familiare ma anche del processo, un primo caso in cui l’obbligo di riservatezza decade può riguardare la richiesta diretta dell’Autorità giudiziaria di avere accesso a informazioni riguardanti la mediazione indispensabili per una decisione riguardante la separazione, il divorzio o la custodia dei figli: informazioni, insomma, senza le quali la decisione giudiziaria non può essere presa e che risultano necessarie per tutelare l’interesse superiore del minore e per garantire una decisione giuridica più adeguata possibile.
Pertanto, qualora vi siano concreti rischi per la sicurezza fisica o psicologica del minore o, comunque, nel suo interesse superiore sovviene un obbligo per il mediatore familiare di segnalare la situazione alle autorità competenti (siano esse i servizi sociali o il Tribunale) per garantire una sua pronta e piena tutela.
A tale aspetto se ne ricollega un secondo: le dichiarazioni e le informazioni rese nel corso degli incontri di mediazione familiare non sono soggette all’obbligo di riservatezza (con conseguente loro utilizzabilità in sede giudiziaria) quando sono estranee all’oggetto del giudizio, potendo ben essere utilizzate in causa, anche senza il consenso della parte dichiarante, qualora siano ritenute rilevanti per la decisione del giudice[6].
Un’altra ipotesi di decadenza del principio concerne i casi di pericolo di abuso o maltrattamenti, violenze psicologiche o fisiche (si pensi ai casi di violenza domestica o di genere) su una delle parti ad opera dell’altra, che vengano a emergere nel corso degli incontri di mediazione familiare. Non si tratta di una scelta: in situazioni di tal fatta l’obbligo di segnalare alla autorità competenti prevale sul principio di riservatezza e, anzi, determina l’immediata interruzione del percorso davanti al mediatore familiare[7].
Un’ulteriore situazione da comunicare all’Autorità giudiziaria riguarda i casi di violazioni degli obblighi alimentari o di mantenimento gravi e documentate.
Da ultimo, come disposto dall’art. 9 del D. Lgs. 28/2010, in presenza di un accordo esplicito delle parti, che volontariamente acconsentano alla divulgazione di determinati aspetti o informazioni della mediazione familiare, l’obbligo di riservatezza decade.
[1] Comma così modificato dall’art. 7, comma 1, lett. l) del D.lgs. 10.10.2022, n. 149.
[2] Vedasi Cassazione, sent. n. 14676 del 2016.
[3] Vedasi Cassazione, sent. n. 11667 del 2015.
[4] Vedasi Cassazione, sent. n. 17420 del 2020.
[5] Tribunale di Milano, sent. n. 6826 del 22.08.2023
[6] A tal riguardo vedasi: Tribunale di Verona, sent. n. 256 del 26.01.2021. Il giudice con la pronuncia del caso ha evidenziato come, in alcuni casi, l’interesse superiore del minore e la necessità di una decisione giuridica adeguata possano giustificare l’accesso a informazioni altrimenti protette dalla riservatezza, soprattutto quando tali informazioni sono essenziali per valutare la condizione di procedibilità della domanda e per adottare provvedimenti in materia di separazione, divorzio o affidamento dei figli.
[7] Il D.Lgs. del 10.10.2022, n. 149 (alias Riforma Cartabia), introducendo l’art. 473-bis.3 c.p.c., dispone che “Non si può disporre il tentativo di conciliazione o la mediazione familiare in presenza di violenza domestica o di genere, salvo che la parte interessata lo richieda espressamente e il giudice lo ritenga comunque opportuno.”
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
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